lunedì 23 maggio 2016

Black-ish (Stagione 1 e 2): The Best Sit-com of the World

★★★★

A chiunque poneste la domanda "Qual è la miglior sit-com d'America?" di sicuro vi risponderebbe The Big Bang Theory. Per quanto anche a me divertano Sheldon, Leonard, Penny & Compagnia Nerd credo che tale scettro (preferirebbero una spada laser) non spetti a loro, bensì a Black-ish, una vera bomba comica a orologeria, uno degli spettacoli più appaganti, arguti ed esilaranti che vi spingerò (guardatelo, sciocchi) mai a prendere in considerazione. 

Colui che narra le vicende della divertente famiglia Johnson è il padre, Andre Johnson (il superbo Anthony Anderson), un afroamericano che è riuscito a conquistare l'american dream: ha una bella casa in un quartiere esclusivo di Los Angeles, una bella auto, una cabina armadio colma di abiti firmati e scarpe di marca e una posizione di prestigio in un'azienda pubblicitaria. E' sposato con Rainbow (Tracee Ellis Ross), stimato medico, con cui hanno ben cinque figli uno più diverso dall'altro. Se Zooey (Yara Shahidi), la maggiore, è una tipa sempre alla moda e assai popolare nella sua scuola, Junior (Marcus Scribner) è il bullizzato nerd che scrive piani d'evacuazione in dothraki e che non ha una ragazza da quando è nato. Poi ci sono i gemelli Diane (Marsai Martin) e Jack (Miles Brown). La prima è una cinica realista le cui frecciate fanno stramazzare al suolo morti e stecchiti mentre il secondo è un adorabile e vivace bambino che con un sorriso farebbe sciogliere pure una pietra. Ah, e come dimenticare i genitori di Andre? Il padre - chiamato semplicemente "Poops" (Laurence Fishburne) - vive nella depandance dove oltre a gustare raffinato scotch rimorchia delle ventenni; la madre, Ruby (Jenifer Lewis), la quale mal sopporta la nuora, è invece una fervente cattolica che per suo figlio sarebbe disposta anche a fronteggiare un'invasione aliena a suon di "Black Jesus save me". E ovviamente c'è Charles "Charlie" Telphy, uno dei character comici più riusciti degli ultimi anni interpretato dal bravissimo Deon Cole, totalmente surreale, misterioso, contraddittorio, con cui ha un rapporto di odio/timore con la piccola Diane tanto che quando si vedono l'aria si fa rarefatta, i loro occhi si assottigliano e pronunciano l'uno il nome dell'altra con un'enfasi mefitica. 

Creata da Kenya Barris, Black-ish si guarda con un animo totalmente rilassato. Si ride, tanto, e si riscopre il gusto che la risata lascia in bocca. Offre continui riferimenti, spiegazioni, aneddoti sulla black-culture di cui non ero mai venuto a conoscenza. Voi sapevate che il barbiere per le black person non si tradisce mai facendosi tagliare i capelli da un altro? E che la parola "nigger" la possono pronunciare solo i neri, lo sapevate? E che per l'amor del cielo "di colore" è un'espressione che non si può sentire? Oh, e in pochissimi sanno nuotare perché "durante i trecento anni del nostro tirocinio non pagato non siamo stati proprio incoraggiati a rinfrescarsi le membra". E ovviamente votano tutti il Partito Democratico. Uno dei momenti migliori dello show, infatti, è quando Junior dice al padre di essersi iscritto a un gruppo Repubblicano. 

Oltre ad apprezzati omaggi a sit-com quali I Robinson (in una puntata la famiglia Johsnon replica perfettamente la sigla dello show), a Good-Times (il finale della seconda stagione ripropone la sit-com con tanto di costumi e scenografie identiche) e I Jefferson, Black-ish, che in Italia guarderanno due persone su dieci, parla di amore, rispetto, onestà, solidarietà e di tutti quanti i valori che una famiglia può offrire ai propri figli (e ricordare ai propri genitori, perché no?) sotto forma di episodi sempre divertenti, sempre originali, sempre deliziosamente black. 

Però è con l'episodio 16 della seconda stagione, intitolato Hope, che Black-ish diventa uno di quei rari spettacoli vivamente ed eticamente necessari allo spirito di ognuno di noi. E' un gioiello di episodio. Un capolavoro. Da far vedere nelle scuole, nelle stazioni di polizia, negli ospedali, ovunque. Bisognerebbe regalarlo al posto di santini e rosari. L'episodio si svolge interamente nel salotto della famiglia Johnson dove, seguendo in Tv il processo a due poliziotti che hanno aperto il fuoco contro un uomo nero, si parla della brutalità della polizia, del razzismo in cui l'America sguazza da sempre, se è giusto che i bambini piccoli vengano a conoscenza del mondo reale che li circonda, e della gioia che l'insediamento del Presidente Obama ha dato alle persone che solo quarant'anni fa doveva sedersi esclusivamente sui posti dietro dell'autobus. Anthony Anderson, con occhi commossi e voce rotta da un inizio di pianto, ricorda la paura durante l'insediamento del presidente, la paura che quel "simbolo di speranza ci venisse portato via"Kenya Barris firma una dichiarazione potente e allo stesso tempo delicata: non abbandonate mai la speranza. E in una sit-com questo è ciò che non mi sarei mai aspettato di vedere. 

martedì 17 maggio 2016

Il Post (it) #2: Unbreakable Kimmy Schmidt (Stagione 1 e 2), Vikings (Stagione 1), Marseille (Stagione 1), New Girl (Stagione 5)

★★★

Unbreakable Kimmy Schmidt è stata una delle serie Tv comedy rivelazioni dell'anno scorso. Sgargiante, allegrotta, graziosa e con la testa fra le nuvole. Un po' come la protagonista Kimmy (Ellie Kemper) che, dopo aver passato quindici anni reclusa insieme ad altre ragazze in un bunker, sotto il controllo del misterioso Reverendo (se vi dico che è Jon Hamm correreste subito a guardarla, non è vero?), si ritrova in un mondo con cui non ha mai fatto amicizia. Ma Kimmy ha un'arma che la rende un essere umano quasi indistruttibile: l'inossidabile buonumore. E' così che a New York incontra Titus Andromedon (Titus Burgess), attore squattrinato omosessuale che sogna di calcare i prestigiosi palchi di Broadway, l'affittuaria Lillian (Carol Kane) che è un'estrema difenditrice del degrado del quartiere in cui risiede, e infine Jacqueline (Jane Krakowski), la classica moglie mantenuta dal marito miliardario che non saprebbe aprirsi una bottiglietta d'acqua da sola. Kimmy è pronta a riappropriarsi dei colori dell'esistenza, ma il passato tornerà a chiedere un'ultima resa dei conti. La prima stagione della creatura nata da Tina Fey e Robert Carlock (30 Rock) si è fatta divorare senza singhiozzi, abbioccamenti o mal di pancia. E' nella seconda stagione, invece, che non è andato tutto liscio come un ballo da sala. Quel minimo di trama presente al suo debutto qui appare sfilacciato come il filo a cui si appende il bucato ad asciugare al sole. Una sequela di episodi non molto sganasciosi si muovono come delle lenzuola o magliette grazie all'aria provocata da uno sbadiglio. La serie, una volta svoltato in Successo Road, ha preso Assurdo e Surreale Boulevard lasciando un senso di straniamento. Certo, il finale di stagione regala una sorpresa (anzi due) che riesce a far salivare in attesa della terza stagione, ma si sente la mancanza di Pinot Noir di Titus tutti i momenti. 


★★½

Ragnar (Travis Fimmel) è un vichingo. Fattore, pescatore, cacciatore e razziatore. Abile guerriero e sopra ogni cosa ambizioso e sognatore. Convinto di essere destinato alla gloria, cerca di convincere il suo signore, il Conte Haraldson (Gabriel Byrne), a fargli guidare delle navi che lo portino ad attraversare il mare del Nord verso occidente, alla ricerca di terre ricche e rigogliose. Aiutato dall'abile costruttore di navi Floki (Gustaf Skarsgard), da suo fratello Rollo (Clive Standen), e incoraggiato dalla sua forte moglie guerriera Lagertha (Katheryn Winnick), Ragnar riuscirà in tale impresa divenendo tra il popolo sempre più rispettato (e temuto dal suo signore). La serie Tv di History Channel cerca di unire l'intrattenimento puro con una interessata divulgazione della storia e della mitologia norrena. Peccato che il pathos venga dimenticato sul campo di battaglia e lo spessore psicologico dei personaggi sia sottile quanto la lama di una spada. E poi il sorrisetto compiaciuto di Ragnar alla lunga è insostenibile e irritante. Una discreta stagione, piuttosto veloce nel tratteggiare l'ascesa del protagonista, ma che non mi fa smaniare per la seconda. Staremo a vedere. 



Confidavo molto in Marseille. Vuoi per il trailer accattivante, vuoi per un Gerard Depardieu che, bottiglie di vino scolate in un giorno e ospitate nella tenuta di Al Bano a parte, è un attore bravissimo, vuoi per gli avventati e ingiustificati parallelismi con House of Cards, questa produzione al 100% francese targata Netflix ha accalappiato le mie aspettative piuttosto alte; decedute prematuramente dopo la seconda puntata. Robert Taro è il sindaco di Marseille da più di vent'anni. Arrivato al suo ultimo mandato è pronto a lasciare il potere al suo delfino Lucas Barres (Benoit Magimel) il quale però nasconde un piano tutto fuorché limpido e onesto. Dopo il pilot tutto sommato discreto, dove il colpo di scena finale è più sgonfio della tetta di quella tizia colpita da Red di Orange is the New Black, Marseille dimostra di essere maldestra nella sceneggiatura, scolastica nella struttura, pessima nel montaggio e nello studio dei luoghi (due o tre ville, il comune della città, e un quartiere malfamato), e incresciosa nella direzione degli attori. Neanche un Depardieu monumentale solo nel fisico non riesce a salvare neanche una scena. Invece di voler essere a tutti i costi una sorta di House of Cards alla francese se gli sceneggiatori avessero lavorato sodo affinché diventasse l'esatto contrario il risultato sarebbe stata un'autentica sorpresa (molto probabilmente) vincente. Prendere un uomo ligio al dovere, cristallino e brillante, che vede la propria amata città minacciata dal suo successore e farlo combattere per salvarla mettendo a repentaglio i propri ideali arrivando anche a sporcarsi le mani non sarebbe stata una mossa più intelligente invece di confezionare questo prodotto di serie B il cui posto ideale sarebbe il palco senz'arte né parte di Rai1?


★★½

New Girl me l'ha presentata la mia morosa. Dopo il frizzante pilot e un paio di puntate seguenti tutte passeggianti sulla linea di Risata e Spensieratezza ho capito che valeva la pena recuperare tutte le quattro stagioni in vista della quinta. Protagonista di questa serie Tv comedy targata Fox è Zooey Deschanel che interpreta Jessica "Jess" Day (praticamente se stessa) la quale, dopo aver lasciato il fidanzato fedifrago, finisce per andare a vivere in un loft abitato da tre ragazzi: Schmidt (Max Greenfield), Nick Miller (Jake Johnson) e Coach (Damon Wayans Jr.). Jess assieme ai ragazzi e alla sua migliore amica Cece (Hannah Simone), pur essendo molto diversi tra loro, formeranno presto una combriccola irresistibile. Le prime due stagioni scorrono all'insegna del divertimento. Per fortuna Coach, dopo il pilot, viene sostituito da Lamorne Morris che interpreta l'esilarante Winston Bishop, gattaro e appassionato di camice con uccelli stampati sopra. Schmidt - maniaco dell'ordine, sognatore, e modaiolo - si invaghisce di Cece mentre quest'ultima lo utilizza solo a scopi sessuali. Nick - disordinato, disorganizzato, pasticcione, ma leale, onesto e spassoso - e Jess scappano assieme nel finale della seconda annata. La terza non potrebbe andare meglio, tanto che gli sceneggiatori scrivono due tra i più bei episodi di New Girl: Compleanno al cinema (dove Nick organizza la festa di compleanno di Jess a sorpresa) e A casa di Prince (dove la buonanima di Purple King si presta con grande ironia alla serie). Purtroppo quest'idillio dura pochissimo, infatti, dal sedicesimo episodio in poi (con l'arrivo della sorella di Jess per intenderci) le risate lasciano il posto alla rabbia e l'amarezza è lo state of mind durante tutta la pessima quarta stagione. In questa quinta annata però (dove avviene il coronamento del rapporto tra Cece e Schmidt), oltre a essere tornata a far ridere, c'è stata una rivelazione a doppio taglio che potrebbe cambiare in futuro le sorti della serie. Mi spiego meglio: dopo cinque o sei puntate Zooey Deschanel esce di scena (doveva partorire). Niente Jess. "Oddio, dopo la mestizia di una stagione orrenda ora ci fanno questo? Ma dove andremo a finire? Cosa ci capiterà ancora?". Presto detto: Megan Fox. Ora, io gliene ho dette di ogni appena l'ho saputo, ma ho dovuto mordermi la lingua perché - maledetti sceneggiatori - il suo personaggio (totalmente diverso da Jess) ha funzionato e si è amalgamato bene con il cast. Ma vi dirò di più: la mancanza di Zooey non si è sentita affatto. Con Jess fuori dalle scene tutti gli altri personaggi hanno avuto modo di splendere soprattutto Winston, che - partito in sordina e relegato nell'angolo sfigato con le donne e con un gatto di nome Ferguson come unico affetto - ha dimostrato di essere non solo il personaggio collante dello show bensì il personaggio davvero insostituibile, quello che se non ci fosse bisognerebbe inventarlo. Ecco perché parlavo di scelta a doppio taglio: gli sceneggiatori, senza neanche accorgersene come loro solito, hanno svelato la serena sostituibilità di Zooey Deschanel in qualsiasi momento. E il prossimo anno, con il ritorno di Megan Fox in pianta stabile, daranno il via al classico triangolo amoroso tra lei, Jess e Nick? Mah, vedremo cosa s'inventeranno. 

mercoledì 11 maggio 2016

Captain America: Civil War (2016)

★★★

Un anno dopo la battaglia contro Ultron, Captain America (Chris Evans) assieme a Scarlet (Elizabeth Olsen), Vedova Nera (Scarlett Johansson) e Falcon (Anthony Mackie) impediscono a Brock Rumlow di rubare un'arma chimica da un laboratorio a Lagos in Nigeria. Purtroppo però Scarlet, tentando di limitare i danni di un'esplosione, uccide diversi volontari del Wakanda aumentando la sfiducia nei confronti degli Avengers. E' così che le Nazioni Unite decidono di siglare un accordo che limiterà i poteri decisionali del gruppo di supereroi stabilendo che il loro intervento verrà richiesto solo in caso di estrema necessità. Mentre il capitano Steve Rogers non vuole piegarsi al volere delle istituzioni, Tony Stark (Robert Downey Jr.), in colpa per la creazione di Ultron, è favorevole a una supervisione esterna. Il piano di Helmut Zemo (Daniel Bruhl), oltre al coinvolgimento del Soldato d'Inverno Bucky Burnes (Sebastian Stan) nelle vicende, sarà l'ulteriore scintilla per una guerra interna che metterà in serio pericolo l'unione degli Avengers. 

La promozione di Captain America: Civil War è stata tanto dilagante quanto semplice: #TeamCap o #TeamIronMan? Questi hashtag hanno invaso i social come degli aliens senza contare tutte le parodie legate ai motivi della Civil War. Meglio il cioccolato al latte o il fondente? Marvel o DC? Bionde o more? Insomma, gli utenti si sono sbizzarriti, e coloro che si sono recati al cinema erano o dalla parte di Captain America o di Iron Man. Tranne me che preferivo tifare per l'estinzione di entrambi. Quando mai avrei pensato di uscire dalla sala soddisfatto quasi come dopo la visione del divertentissimo Guardiani della Galassia? Mai, appunto. 

Ognuno ha le sue ragioni. Steve Rogers (Captain America) non si fida dalle istituzioni e l'idea di essere controllato da un ente nominato dalle Nazioni Unite lo rende inquieto; opponendosi all'accordo difende il suo diritto di scegliere quando e dove intervenire. Dall'altra parte Tony Stark (Iron Man) si dice favorevole a un controllo degli Avengers con leggi e regole precise perché "Senza leggi non siamo migliori dei criminali che combattiamo". Il film non tende mai verso l'uno o l'altro, tranne nella mezz'ora finale, dove sembra trasparire chi sia l'eroe e chi il villain (sempre in termini molto ampi e discutibili). 

I fratelli Anthony e Joe Russo firmano un blockbuster inaspettatamente intelligente, in grado di coinvolgere e divertire lo spettatore, sapendo esattamente come dosare le battutine ironiche con i momenti più seri, e aggiungendo un tocco di pathos che rende profumato il risultato finale. Captain America: Civil War, distaccandosi dalla giocosità dei film di Joss Whedon, è tra i lavori cinematografici più godibili usciti dalla Casa delle Idee. 

La pellicola scritta da Christopher Markus e Stephen McFeely non è esente però da alcuni difetti: uno in particolare è un fatto totalmente inspiegabile e campato in scena senza uno straccio di spiegazione plausibile. Infatti, come diamine ha fatto Tony Stark a scoprire l'identità di Spider-Man? Si presenta in casa di zia May (Marisa Tomei) nel Queens come se lo avesse sempre saputo. Per caso uno degli sceneggiatori gliel'ha suggerito all'orecchio? E sull'assenza di Hulk e Thor le spiegazioni o sono lasciate a un'alzata di sopracciglio da parte di Vedova Nera oppure non ce n'è traccia. Infine il ruolo della "madre" sembra essere ormai il motivo principale che spinge un supereroe alla lotta rabbiosa. Buon cielo, non toccate più le mamme ai supereroi. 

L'entrata in scena di Black Panther ha un senso così come il suo personaggio in questo film. Quella di Spider-Man, lo ammetto, mi ha divertito. L'Uomo-Ragno di Tom Holland è un cazzone che chiacchiera mentre combatte, che si scusa perché "E' l'emozione della prima volta", e che, fermando il pugno di Bucky, gli dice "Figo, ma è un braccio di metallo?". E' un ragazzo a malapena ventenne, da sei mesi ha scoperto i suoi poteri, che si vede arrivare in casa Tony Stark pronto a farlo entrare nella sua squadra in una lotta più grande di qualsiasi cosa abbia mai visto. E' naturale che si stupisca delle abilità dei supereroi coinvolti, che esclami "Porca paletta" e chiacchieri nervosamente. Mi piace. Ah, c'è anche Ant-Man. E la loro presenza non dà mai il sentore di troppa carne al fuoco, al contrario, tutto scorre fluido tra scene d'azione ben girate che evitano sempre di scadere nella mera baracconata. Certo, Captain America: Civil War non avrà dalla sua l'inventiva registica di un Sam Raimi, non avrà l'anima visionaria di un Guillermo Del Toro, non sarà dark e realistico come il duetto di Christopher Nolan, ma sa intrattenere con piacere sua e soprattutto nostra.