giovedì 16 luglio 2015

La morte del padre di Karl Ove Knausgaard


Il mio approccio con La morte del padre di questo scrittore norvegese sconosciuto ai più - primo volume di un'opera complessiva intitolata La mia battaglia composta da ben sei volumi per un totale di 3500 pagine autobiografiche - è scaturito non solo dalla splendida copertina dell'edizione Feltrinelli (pag 505. 20euro) - quello non è Sirius Black bensì lo scrittore stesso -, ma dalle recensioni entusiaste arrivate da oltreoceano come quella di James Wood del New Yorker ("Superbo, sempre avvincente, intenso e vitale"), dai commenti letti sui social e soprattutto da una frase di Jeffrey Eugenides, autore del bellissimo Middlesex, ovvero "Knausgaard ha rotto il muro del suono del romanzo autobiografico". E dopo tali incensi rifiutarsi diventa arduo. In otto giorni ho fatto la conoscenza di Karl Ove che mi ha raccontato un episodio tragico della sua vita, appunto la morte del padre, senza che io glielo chiedessi, e non nego di essermi sentito fuori luogo in alcune occasioni, come se fossi un burbero voyeur che s'è permesso addirittura di sbuffare durante il racconto, pensate un po'. 

La prosa di Karl Ove Knausgaard è in divenire, priva di un'artificiosità stilistica ma anche di un'impronta con cui si possa identificare in mezzo agli altri scrittori. Non ci si può permettere di criticarne la trama: stiamo pur sempre parlando della sua vita che lui stende con puntigliosità annotando qualsiasi particolare. In mezzo a momento noiosi quali una disastrosa esibizione con la sua band in un centro commerciale e un capodanno freddo e nevoso annaffiato da decine di bottiglie di birra si trovano pagine bellissime dove la descrizione del giardino della nonna la si legge volentieri più di una volta. 

L'impressione che mi ha dato lo scrittore è quello di essere una persona ambiziosa, a suo modo profonda, che vuole scrivere "qualcosa di eccezionale", che invece di commuoversi di fronte ai figli che crescono lo fa quando si trova davanti a un'opera d'arte di Rembrandt, il cui rapporto col padre non è stato dei più indimenticabili essendo questa figura di professore delle medie un'alcolista che dispensa occhiate al posto di carezze i cui ultimi anni saranno completamente dediti a bere birra nella casa di sua madre tanto da... e qui mi fermo. Mi si permetta di prendere in prestito una frase letta anni fa riguardante la sincerità dei Saggi di Montaigne, ma se si strappa una sola pagina di questo romanzo esso sanguinerà. 

Se in uno scrittore non brucia il falò dell'ambizione allora vada ad ammaestrare foche ché il campo di battaglia chiamato Letteratura non è roba da deboli di cuore. Karl Ove, con La morte del padre, ha solo cominciato a forgiare la spada con cui scenderà in campo al fine di decapitare gli avversari. Leggendolo si può iniziare a intravedere la forma longilinea e l'affilatura che avrà infine l'arma di questo scrittore norvegese per il quale scrivere "significa portare alla luce l'esistente facendolo emergere dalle ombre di ciò che sappiamo. La scrittura è questo". Auguriamoci che in seguito sappia anche tagliare. 

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