venerdì 31 luglio 2015

Storia della bambina perduta di Elena Ferrante


Subito dopo aver letto l'ultima frase di Storia della bambina perduta ricordo di essermi sentito smarginato. Smarginato, quasi irreparabilmente. E' successo anche a voi? Avete cercato di rimediare allo stato catatonico a seguito della chiusura (da straziacuore) del volume con un altro libro dal potere curativo oppure di oggetti cartacei non ne avete più sentito il bisogno per un paio di settimane buone?

Continuo a pensare che l'ambizione dell'Amica geniale sia sempre stato uno solo: farsi leggere e mai una volta il mio appetito nei confronti della storia è venuto meno. Quando riponevo il libro pensavo "cosa succederà a Lila?". Non era sicuramente nelle intenzioni della Ferrante scrivere il nuovo I promessi sposi del 2000 come hanno detto, sbagliando, quelli del New York Times. E qui apro una piccola parentesi necessaria per levarmi un sassolino dalle scarpe. Quando un autore italiano ha successo all'estero la critica del Bel Paese, e molti (e rari) lettori onnivori e insaziabili, storce il nasino petulante e corre a tirar fuori dallo stanzino delle scope il più becero campanilismo come se i bravi autori italiani e sottolineo bravi non dovessero avere successo e gloria fuori dal paese in cui hanno la fortuna di vivere. Elena Ferrante viene definita una delle penne più importanti del XXI secolo dal New Yorker e il critico italiano, grattandosi la barba a furia di non far nulla, in uno slancio produttivo si appresta a ridimensionare l'autrice dato che non è possibile che possa aver piantato l'asta del successo nella land of American Dream, e via di pipponi sui giornali che non prendono in esame mai una volta il contenuto e la prosa del libro bensì il mantello dell'anonimato che l'autrice ha scelto di indossare come se fossero i detective di Scooby-Do incaricati di smascherare il mostro di turno, salvo poi immergere il loro nasino delicato tra le pagine della parolaia stucchevole per eccellenza, Margaret Mazzantini, sventolando a ogni suo libro il sacro vessillo del "capolavoro" o definendola la massima scrittrice italiana quando invece è la peggiore, cappello da giullara che condivide con Susanna Tamaro, il "water della Letteratura", citando il meraviglioso Andrea G. Pinketts.


La più azzeccata definizione della quadrilogia della Ferrante la da, senza farlo apposta, il direttore della casa editrice che pubblica i romanzi di Elena Greco: "puro piacere di raccontare". E anche se ci fa male, pazienza. Non siamo dei novellini e le botte le sappiamo incassare perché Storia della bambina perduta è un romanzo cattivo, a tratti struggente, parafrasando le parole della protagonista, leggere questo libro è stato "come affacciarsi su un pozzo scuro con qualche scintillio di luce". Scritto con una prosa che è andata maturandosi nel corso dei volumi, l'autrice descrive con un realismo spietato la vicenda ambientata per la maggior parte a Napoli, al rione in cui sono nate e cresciute le due protagoniste Lila ed Elena, che ora vivono nello stesso palazzo, la prima con il suo compagno Enzo, il figlio Gennaro e la figlia Tina (Nunziatina) e la seconda con le tre figlie Dede, Elsa e Imma (Immacolata). Mi fermo qui con la trama, per chi non fosse ancora entrato nel tunnel Ferrante, anche perché la vera bellezza di questa lunga e travagliata storia d'amicizia sta nell'azione vera e propria della lettura. Leggere la Ferrante è un viaggio appassionante di cui non vorreste mai vedersi profilare all'orizzonte la destinazione finale. Quando viene narrato il terremoto che scosse Napoli nel 1982 vi sono pagine stupende in cui un Lila inaspettatamente disorientata, sotto shock, delirante - lei che è sempre stata dotata di un equilibrio invidiabile - è preda della "smarginatura" (di cui abbiamo sentito parlare nel primo volume in occasione di una festa di Capodanno) ovvero i contorni delle abitazioni, delle auto, degli oggetti e delle persone si sfilacciano, si sciolgono, ogni cosa si confonda con l'altra andando a formare una materia appiccicosa e confusa a cui non si riesce porre rimedio. 


Eppure questo è l'ultimo volume e, accantonato un attimo il magone, mi si permetta la goliardia: sapessi il domicilio di chi si nasconde dietro lo pseudonimo di Elena Ferrante lo rapirei e come un mascolino Annie Wilkes lo segregherei in una baita in montagna costringendolo con le buone e con le cattive a riscrivere l'intera quadrilogia questa volta dal punto di vista di Lila. "Lila la scarpara, Lila che imitava la moglie di Kennedy, Lila l'artista e l'arredatrice, Lila l'operaia, Lila la programmatrice, Lila sempre nello stesso luogo e sempre fuori luogo". Lila che resterà nel cuore dei lettori - o almeno nel mio. 

giovedì 16 luglio 2015

La morte del padre di Karl Ove Knausgaard


Il mio approccio con La morte del padre di questo scrittore norvegese sconosciuto ai più - primo volume di un'opera complessiva intitolata La mia battaglia composta da ben sei volumi per un totale di 3500 pagine autobiografiche - è scaturito non solo dalla splendida copertina dell'edizione Feltrinelli (pag 505. 20euro) - quello non è Sirius Black bensì lo scrittore stesso -, ma dalle recensioni entusiaste arrivate da oltreoceano come quella di James Wood del New Yorker ("Superbo, sempre avvincente, intenso e vitale"), dai commenti letti sui social e soprattutto da una frase di Jeffrey Eugenides, autore del bellissimo Middlesex, ovvero "Knausgaard ha rotto il muro del suono del romanzo autobiografico". E dopo tali incensi rifiutarsi diventa arduo. In otto giorni ho fatto la conoscenza di Karl Ove che mi ha raccontato un episodio tragico della sua vita, appunto la morte del padre, senza che io glielo chiedessi, e non nego di essermi sentito fuori luogo in alcune occasioni, come se fossi un burbero voyeur che s'è permesso addirittura di sbuffare durante il racconto, pensate un po'. 

La prosa di Karl Ove Knausgaard è in divenire, priva di un'artificiosità stilistica ma anche di un'impronta con cui si possa identificare in mezzo agli altri scrittori. Non ci si può permettere di criticarne la trama: stiamo pur sempre parlando della sua vita che lui stende con puntigliosità annotando qualsiasi particolare. In mezzo a momento noiosi quali una disastrosa esibizione con la sua band in un centro commerciale e un capodanno freddo e nevoso annaffiato da decine di bottiglie di birra si trovano pagine bellissime dove la descrizione del giardino della nonna la si legge volentieri più di una volta. 

L'impressione che mi ha dato lo scrittore è quello di essere una persona ambiziosa, a suo modo profonda, che vuole scrivere "qualcosa di eccezionale", che invece di commuoversi di fronte ai figli che crescono lo fa quando si trova davanti a un'opera d'arte di Rembrandt, il cui rapporto col padre non è stato dei più indimenticabili essendo questa figura di professore delle medie un'alcolista che dispensa occhiate al posto di carezze i cui ultimi anni saranno completamente dediti a bere birra nella casa di sua madre tanto da... e qui mi fermo. Mi si permetta di prendere in prestito una frase letta anni fa riguardante la sincerità dei Saggi di Montaigne, ma se si strappa una sola pagina di questo romanzo esso sanguinerà. 

Se in uno scrittore non brucia il falò dell'ambizione allora vada ad ammaestrare foche ché il campo di battaglia chiamato Letteratura non è roba da deboli di cuore. Karl Ove, con La morte del padre, ha solo cominciato a forgiare la spada con cui scenderà in campo al fine di decapitare gli avversari. Leggendolo si può iniziare a intravedere la forma longilinea e l'affilatura che avrà infine l'arma di questo scrittore norvegese per il quale scrivere "significa portare alla luce l'esistente facendolo emergere dalle ombre di ciò che sappiamo. La scrittura è questo". Auguriamoci che in seguito sappia anche tagliare.